Quello che quest’anno viene chiesto ad Assoenologi dagli amici di Dolce Puglia è davvero un compito gravoso: cercare di raccontare in un paio di pagine la bellezza vitivinicola non di un’uva qualsiasi, ma di uno tra i più grandi (se non il più grande) nettari enologici che il buon Dio ha voluto regalarci: la Malvasia. Perché proprio di nettare si tratta.
Se n’è parlato per tre giorni in un simposio internazionale sulle Malvasie tenutosi in Sardegna nei mesi scorsi, organizzato dall’Accademia Italiana della Vite e del Vino, di cui mi onoro di far parte. Scienziati da tutto il mondo hanno portato il loro contributo alla scoperta di quest’uva sensazionale e unica nel suo genere, cercando di dissipare l’alone di mistero che ancora la circonda: la madre di tutte le uve per vini dolci, di cui l’Italia è il principale Paese produttore, presente in tutto il mondo con tantissime sfaccettature di colore, gusto e profumo che si trasformano in una nuova avventura enologica da vivere ora per ora, giorno per giorno ogni volta che noi tecnici entriamo in contatto con una di esse. Profumi in continua evoluzione, talmente inebrianti da inondare la cantina di sentori che ricordano il lampone e la melagrana, note vinose oppure erbacee, di muschio e ortica per le Malvasie rosse, e intense note varietali, caratterizzate da una fragranza piccante di muschio e di albicocca, per quelle bianche. Se poi si tratta di passiti, allora le note di miele, albicocca matura e tamarindo confondono i sensi.
La Malvasia è una di quelle famiglie di vitigni così estese da rendere difficile la valutazione enologica: sono ben 17, infatti, le varietà italiane iscritte sotto questa denominazione nel Registro Nazionale delle Varietà. Colpa dei Veneziani, si potrebbe dire… Già nell’antichità venivano infatti prodotti in Grecia vini ottenuti da grappoli di tanti differenti vitigni, con un unico comune denominatore: l’appassimento al sole e un taglio più o meno casuale di tante uve diverse tra loro. Vini provenienti da tutta l’Ellade, che nel Medioevo avevano il loro punto di raccolta e partenza per l’esportazione presso il porto di Monemvasia, città ancor oggi esistente nel Peloponneso – che ho avuto la fortuna di visitare – il cui nome, storpiato dai Veneziani, divenne prima Malvagia e poi Malvasia. Un polo nevralgico del commercio da cui partivano soprattutto i rinomati vini dolci di Creta, chiamata anche Candia, da cui il nome della nota Malvasia.
Quando però nel 1540 i Turchi occuparono Creta, la Repubblica di Venezia, per non perdere di mano il commercio di questi vini, favorì l’introduzione di vitigni che, una volta assemblati, davano appunto la cosiddetta Malvasia, e contestualmente cominciò a produrre un vino con la medesima tecnica di vinificazione. Fu così che si iniziò a produrre Malvasia anche in Francia, in Spagna, in Portogallo, e, cosa che a noi interessa di più, in Italia, e soprattutto in Puglia.
A quel tempo bastava produrre un vino simile alla Malvasia – anche solo per appassimento dei grappoli, vinificazione e caratteristiche organolettiche – perché venisse chiamato con lo stesso nome. Questo spiega perché si sia creata l’odierna confusione a causa della quale, in Italia, possono essere accomunati dalla stessa denominazione un’uva dal sapore neutro come la Malvasia lunga, una dagli aromi erbacei come la Malvasia istriana, un’altra quasi neutra come quella del Lazio; per non parlare poi della mitica Malvasia delle Lipari, delle Malvasie aromatiche di Casorzo e di Scherano, della super aromatica Malvasia di Candia – sinonimo di Creta, come già detto – passando dalle nostre Malvasie di Lecce, di Brindisi e della Basilicata.
Un insieme di vitigni diversi tra loro, che hanno in comune solo il nome e la probabile origine geografica; una volta arrivati in Italia, in pochissimo tempo questi nettari conquistarono le tavole degli aristocratici, diventando veri e propri oggetti di culto. E questo gradimento generale dura ancor oggi, con le Malvasie utilizzate anche per la cosmesi e addirittura per creare profumatori d’ambiente. Anche per questo la storia di questo vitigno è piena di aneddoti. Sembra ad esempio che Giorgio Plantageneto, primo duca di Clarence, sia stato annegato in una botte di Malvasia: lo stesso Shakespeare riporta questa notizia nella sua opera “Riccardo III”.
Insomma, quest’anno Dolce Puglia ha alzato ancora di più l’asticella della qualità, perché le Malvasie sono davvero grandi vini, che vengono però prima ancora da grandi uve. Basta assaggiarne un acino per accorgersi che la natura è stata benigna con questo vitigno, conferendogli una precisa riconoscibilità e anima: per questo a volte può sembrare che qualsiasi intervento da parte di noi produttori rischi di corrompere la bellezza di quest’uva. Ogni enologo appassionato cerca infatti, e giustamente, di dare ai propri vini unicità e complessità, ma il miglior modo di valorizzare quest’uva, visto che la natura è già stata così generosa con lei, sta forse nel trattarla nel modo enologico più semplice possibile.
Dolce Puglia 2018 ha insomma puntato al top, al meglio che i vini dolci possano proporre. La competenza e la professionalità dei bravissimi sommelier pugliesi farà il resto.
Cin cin!
Massimiliano Apollonio
Presidente Assoenologi Sezione Puglia Basilicata Calabria